Memorie ribelli. La memoria delle donne all’Istituto Storico della Resistenza di Novara – Mauro Begozzi
Inizio con un ringraziamento all’Ardp che ci ha coinvolto in questa avventura e ringrazio anche Giuliana Manica che ci ha aiutato a pubblicare il libro uscito in questi giorni e curato da Giuseppe Veronica, Una vita in forma di dialogo. Marcella Balconi 1919-1999. Finalmente, verrebbe da dire, finalmente un ricordo di una grande scienziata, di una grande donna, di una grande novarese e finalmente un libro della nostra collana “I nostri maggiori” dedicato a una donna. Lo dico soprattutto come autocritica.
Ho pensato a che taglio dare alla relazione perché, attenendomi al titolo, dovrei parlarvi prevalentemente di ciò che esiste nell’archivio dell’Istituto come “memorie disperse e salvate” di donne novaresi e non solo. Ma io non sono un archivista e quindi non sarei molto bravo a fare una relazione di questo tipo. Poi, per storia e percorso personale, faccio ancora molta fatica a considerare quelle memorie come tali, cioè a considerarle sedimentate, depositate, definitive.
Sono, infatti, in larghissima parte memorie di donne di una generazione che ho conosciuto bene, con la quale mi sono confrontato, spesso ho contribuito a raccogliere i loro ricordi, molte volte le ho intervistate di persona. Ho fatto con tante di loro un percorso comune e, dunque, anche al di là dei sentimenti personali, non riesco a fare fino in fondo il mio mestiere, a rendere e considerare i loro racconti semplici documenti storici, numeri di indici e cataloghi.
Così ho pensato che la cosa migliore per parlare di loro fosse quella di far parlare loro, direttamente, esemplificando, scegliendo alcune testimonianze, citando alcune di queste memorie…. più salvate che disperse. Salvate perché raccolte nelle forme e con gli strumenti più vari: ad esempio, nel caso delle testimonianze, dal preistorico “Geloso” alle audiocassette, ai moderni Cd, sino alle recentissime videocamere digitali, alle webcam.
Disperse dentro al patrimonio culturale conservato dall’Istituto, perché noi non abbiamo costruito un archivio di genere, una sezione specifica.
L’Istituto, com’è o dovrebbe essere noto, si occupa di conservare la documentazione storica privata (di associazioni, partiti, movimenti, sindacati, singole personalità, ecc.) mentre l’Archivio di Stato ha il compito prevalente di conservare la documentazione pubblica. Così, fin dalla sua origine l’Istituto si pose il problema di raccogliere e salvare accanto alla documentazione, diciamo, “cartacea” (lettere, diari, memorie, corrispondenze, pratiche, ecc.) anche le altre fonti per lo studio della storia contemporanea: soprattutto testimonianze, ma pure fotografie, video, oggetti, “materiale grigio”, ecc. che costituiscono in toto il patrimonio delle memorie private.
Quel che è evidente però è che non ci fu, almeno all’inizio (parlo di circa 40 anni fa, quando l’Istituto è nato), l’esigenza di creare distinzioni per genere, considerando, uomini e donne indifferentemente, soggetti-oggetti di un’unica ricerca storica. Solo più tardi, grazie soprattutto alla riflessione storiografica, al contributo di idee che veniva proprio dalle donne, dalle storiche ma non solo, si è cominciato a pensare all’esigenza di raccogliere e costruire la documentazione con un particolare punto di vista, attraverso l’angolatura e la visione delle donne. Ciò però non ha portato alla costruzione di uno specifico archivio, fondo, sezione. Ma a progetti sì e lo vedremo.
Vi è, comunque, una caratteristica di fondo, unica e riscontrabile, che vorrei sottolineare riguardo alle memorie delle donne presenti nell’Istituto, indipendentemente dalla forma del documento (dal cartaceo, dal sonoro, al video ecc): in tutti i casi si tratta di memorie “ribelli”. Io le definirei così. Memorie di una generazione ribelle. E non mi riferisco solo a coloro che hanno partecipato alla Resistenza, ché sembrerebbe quasi naturale, ma a tutte, anche quando si tratta di storie di vita meno eclatanti o avventurose, meno “protagoniste”: nelle fabbriche, nei campi, nel sindacato o fra le mura domestiche. Eppure e comunque si tratta di memorie ribelli.
E allora, facendo finalmente parlare loro, inizio con una di queste memorie di ribellione, la più ribelle di tutte.
Si tratta della testimonianza di una partigiana vera, di una partigiana “con il mitra” (come dall’immagine più famosa che la ritrae), di una combattente. Di una donna, che per essere stata in prima linea, partigiana tra i partigiani e in un ruolo di comando, per essere stata donna in un universo prevalentemente se non esclusivamente maschile (quello della guerra e della concezione “eroica” della storia), per tutta la vita è stata oggetto di ogni tipo di malignità. Si chiamava Elsa Oliva ed era ossolana. Carattere forte, difficile, spigoloso, non era certo nata e vissuta per compiacere e raccogliere simpatie: segnata dalle ingiustizie del tempo, fu ribelle, ribelle appunto per definizione. In anni in cui raramente le donne scrivevano della propria esperienza resistente, negli anni ’50, pubblicò un libro di memorie, Ragazza partigiana, che suscitò da un lato scalpore e interesse (fu tradotto anche in Francia), ma dall’altro tante critiche e invidie, bollato senz’appello di esagerazione. Pian paino il libro fu dimenticato. Elsa però non cedette e scrisse ancora: racconti soprattutto e un romanzo di formazione che restò inedito sin dopo la sua morte. Uscì qualche tempo dopo, grazie all’Istituto e al Centro di documentazione di storia delle donne “Gisella” nel frattempo costituitosi a Novara, col titolo Bortolina. Ora, io invito tutti a rileggerlo, soprattutto rivolgo l’invito alle giovani ragazze di oggi, perché è la storia di una donna del ‘900 che conquista la propria libertà e consapevolezza di sé nel cimento della lotta. Che poi è tutto il senso, secondo me, delle memorie che conserviamo. Vi leggo un passo, uno dei più drammatici:
“Una sera, l’ora del coprifuoco era passata, stavo rientrando a casa da una riunione quando ormai vicina a casa improvvisamente mi si parò davanti un mezzo colosso nazista. Subito girai lo sguardo intorno. Era solo e barcollava ubriaco, cercai di schivarlo ma egli mi afferrò per un braccio e biascicando parole che io non capivo cercava di abbracciarmi. Ingaggiai una lotta furiosa per divincolarmi. Ma le manacce possenti non mi mollavano. Feci l’atto di cedere accompagnandomi a lui remissiva mentre andava ripetendo “Guten fräulein guten” potei così afferrare la piccola beretta calibro 35 che tenevo in tasca sparandogli al fianco all’altezza del cuore. Mi precipitai a casa e mi coricai. Pensavo, mentre non riuscivo prendere sonno, che era assai facile uccidere un uomo. Non mi dispiaceva di avergli sparato, anzi pensavo che era stato giusto farlo. Tuttavia provavo qualcosa dentro di me che non sapevo definire. Le mie argomentazioni non mi assolvevano completamente.”
Ho citato brutalmente questo episodio perché ci porta dentro, senza infingimenti a posteriori, a quella drammatica stagione di guerra, di odio, che una generazione fu costretta suo malgrado a vivere e a subire, una generazione a cui fu posto dinnanzi il dovere della scelta e che si è sacrificata duramente per conquistare prima la libertà e poi, assieme con la libertà, i diritti.
La seconda voce che vi propongo è quella di un’altra donna straordinaria, una donna che molti di voi hanno conosciuto e che rappresenta un vanto non solo per tutte le donne, ma anche per noi novaresi perché fu la prima donna ministro in Italia, Commissario all’assistenza e ai rapporti con le organizzazioni di massa nella Giunta Provvisoria di Governo della Repubblica dell’Ossola: Gisella Floreanini. La ricordo con particolare affetto per quel non breve tratto di strada percorso assieme in difesa dei valori della resistenza. E la ricordo a voi per due aspetti importanti e significativi.
Da un lato, appunto, perché fu ministro e dirigente comunista, dall’altro perché a quegli ideali sacrificò non poco della sua vita personale. Quando fu braccata come antifascista dal regime imperante, dovette fare una scelta drammatica, cioè abbandonare la figlia e la patria: scappò in Svizzera e venne lasciata anche dal marito. Di contro, però, mi piace ricordare la sua femminilità che mai venne meno e che mi permetto di rappresentare sia con la sua bellezza ed eleganza, sia col fatto che insegnava pianoforte: si era diplomata, amava la musica e suonava la musica.
Della vicenda della Repubblica dell’Ossola lei ricordava sempre e soprattutto le altre donne e il fatto che la sua nomina a Commissario fu dovuta sì al suo partito, ma anche e soprattutto ai Gruppi di Difesa della Donna di cui lei era protagonista.
Così ricordava le donne ossolane:
“Le donne che io incontrai mi furono di prezioso aiuto, esercitavano la loro solidarietà in un modo straordinario e molto intelligente (indipendentemente dalle loro idee politiche, che erano spesso assai diverse): esse sono state quelle che maggiormente mi hanno detto quello che dovevo fare e quello che non avrei dovuto fare; si misero in contatto esse stesse nelle valli con i sindaci, parlarono con i comitati di Liberazione Nazionale… Mi hanno aiutato anche le organizzazioni partigiane e quelle operaie, le C.d.L. stavano sorgendo in tutti i paesi dove vivevano gli operai e anche loro sapevano aiutarti in modo tanto intelligente che mi fa pensare a quanto la partecipazione del popolo porti un tipo di cultura popolare che molta cultura libresca non è capace di portare alla gente perché è schematica: mentre operai, donne, giovani portavano la loro esperienza diretta che faceva sì che noi potessimo lavorare in modo più organizzato e molto più razionale>>.
Insomma, lei ci dice che, sostanzialmente, senza le donne nemmeno quell’esperienza, quella Repubblica ci sarebbe stata: furono loro le vere protagoniste di quella straordinaria pagina di libertà. È vero, non furono indette elezioni, anche se si pensò ad una sorta di consultazione attraverso i capi famiglia, però nelle fabbriche le elezioni dei rappresentanti sindacali avvennero e in quelle votarono anche le donne. Siamo, non dimentichiamolo, nell’autunno del 1944 e la cosa pare davvero straordinaria. È un risvolto della vicenda resistenziale poco sottolineato, come il coraggio delle donne. In questo senso voglio ricordare un episodio poco noto. La liberazione della valle era avvenuta attraverso una trattativa, trattativa che al fine prevedeva che tedeschi e fascisti se ne andassero dal territorio, ma armati. Furono le donne che capirono il pericolo: se fossero andati via armati sarebbero tornati armati ancor di più da lì a poco. E a Villadossola le operaie assaltarono i camion di tedeschi e fascisti per farsi dare le armi e furono trattenute a stento, oltretutto dagli uomini.
Un’altra donna che vorrei far parlare è Marcella Balconi. Ma perché qui oggi in “Memorie disperse memorie salvate”? Perché, visto che è a disposizione il bel libro di Giuseppe Veronica? Semplicemente perché in questa città non ci si rende bene conto dell’importanza che Marcella ha avuto nella società e nella scienza italiana.
Ora, noi conserviamo fra altre poche cose (il suo archivio si è progressivamente disperso e frammentato) le sue lettere d’amore, le lettere d’amore tra lei e Cino Bonfantini (altro cognome importante per Novara). Lei giovanissima si innamorò di Cino, Cino morì in campo di concentramento.
Fra le sue carte, dunque, in una scatoletta chiusa con il nastro rosso, e nelle carte Bonfantini ci sono le loro lettere; bigliettini; poesie. In vista del libro, abbiamo cominciato a leggere e ci siamo chiesti se valesse la pena pubblicarne alcune. Poi però abbiamo smesso e abbiamo deciso di non farlo: per pudore, per rispetto. Continueremo a custodire quell’amore con rispetto e con pudore. Però quella lettura ci ha aiutato a comprendere meglio una donna che abbiamo conosciuto e che ci ha dato tanto, che ha dato tanto a questa città e a tutta l’umanità. Ci ha aiutato a comprenderne il lato umano, oltre che quello politico e scientifico.
Nel 1991 la invitammo ad un convegno sui Bonfantini e le chiedemmo di ricordare Cino, che era medico come lei, ritenendo che nessuno meglio di lei avrebbe potuto tratteggiarne la figura. Esitò, ma alla fine venne e lo ricordò così, con una semplicità disarmante:
“A poco a poco Cino si innamorò di me e io di lui, cominciammo così’ a vivere una vita da innamorati, come tutti i giovani di allora. Con le minacce di una guerra di un richiamo. Tanto io quanto Cino appartenevamo a famiglie antifasciste. Lui era fiero della sua famiglia, voleva essere un buon medico, gli piaceva il suo lavoro. Ricordo che era bravissimo a fare le endovenose, prendeva sempre in giro me che all’inizio tremavo dalla paura. Era felice quando poteva guarire un malato grave e ne era fiero. Io imparavo da lui. Cino era un ragazzo chiuso, emotivo amava le corse dei cavalli e scrivere poesie. Un legame forte, vero, tormentato, ci univa. Lo vedevamo proiettarsi nel futuro. La morte lo ha portato via come mille altri giovani. E’ morto come credo nessuno voglia morire. Come tanti che hanno subito la morte dovendo lottare contro un nemico che nemico non era. Per una guerra che non ritenevamo giusta. È stato certo più facile morire da partigiano. C’era una scelta ed un ideale da raggiungere”.
Non so e non sapremo mai quanto quel legame incise sulle scelte di vita di Marcella, sappiamo però quanto la scuola di pediatria del prof. Fornara, dove entrambi si erano formati, fu importante nella sua crescita civile e culturale, nelle sue scelte anche politiche. Vedere oggi il suo nome nel grande sito delle scienziate italiane, unica novarese, “La scienza a due voci”, ci riempie di orgoglio e stupiamo del fatto che la città non sia così grata a generosa nei suoi confronti.
C’è poi un’altra donna che mi preme ricordare qui oggi. Le sue memorie sono in Istituto: si chiamava Bechy Behar e ci ha lasciato da poco tempo. Voglio ricordarla non solo perché è sopravvissuta alla strage degli ebrei sul Lago Maggiore, ma perché si è battuta per tutta la vita affinché la memoria di quella strage così dimenticata, cosi accantonata per lungo tempo, in cui morirono donne, bambini, vecchi nel settembre-ottobre 1943 non cadesse definitivamente nell’oblio. Giovanissima, Bechy scrisse un diario e qual diario è diventato fondamentale per ricostruire quella terribile vicenda di odio e razzismo. Non leggerò un pezzo del diario, ma voglio ricordala per la sua ultima, dignitosa, straordinaria battaglia.
Nel 2007 uscì il film sulla vicenda di Carlo Lizzani, Hotel Meina. Una grande firma del cinema italiano, che però Bechy ha contestato duramente sia durante la lavorazione, sia dopo l’uscita nelle sale cinematografiche. Ha contestato la sceneggiatura, la ricostruzione che è stata fatta e si è battuta come un leone per restituire dignità a sé stessa – che nel film è una giovane donna e non una bambina, giusto per metterci dentro una storia d’amore – e per ridare dignità e memoria alle vittime di cui non sappiamo nulla, non sappiamo nemmeno dove sono. Il suo messaggio a tutti noi è stato tanto chiaro quanto semplice: non cedere, non abdicare di fronte alle manipolazioni della storia, alle falsificazioni (anche se artisticamente giustificate), ma continuare a battersi anche contro le lusinghe di certa comunicazione, per la verità e la correttezza. Questo dobbiamo a chi non c’è più. E’ un insegnamento che ci è caro e che non dimenticheremo.
L’ultima donna che vorrei ricordare e di cui voglio leggere qualche brano delle memorie è ancora viva e vegeta, grazie a dio. E’ una donna deliziosa, ha più di 80 anni, ha uno spiccato amore e senso dell’arte e si chiama Adriana Barberi. Non è stata un’eroina, ha soltanto vissuto drammaticamente la guerra. Anche lei si è vista spezzare i propri sogni dalla guerra, perché lei era una bravissima cantante d’opera, una promettente soprana: davanti una carriera importante. La guerra distrugge il sogno così come le spezza l’amore, un amore apparentemente impossibile, perché riservato a un ferroviere tedesco giunto tra noi durante l’occupazione. Finita la guerra non ne saprà più nulla, ma resterà fedele a quell’amore. Il padre faceva parte per la corrente liberale del CLN cittadino. Ha raccolto i suoi ricordi di ragazza in un delizioso libretto purtroppo stampato in pochissime copie con il titolo: La foglia e il nastrino. Il giorno della liberazione, qui a Novara, la madre prese un nastrino tricolore e una foglia sull’Allea, scrisse la data e le consegnò questo “messaggio” come monito per il futuro. Adriana annotò: “Novara, sera del 25 aprile 1945. Caduta del fascismo. La mamma a me, vicino alle carceri”. Così ripensò poi a quegli anni:
“Nella mia vita, ormai lunga, le numerose vicende mi fanno pensare di avere vissuto non una ma parecchie esistenze.
Altri amori, altre esperienze canore, incontri importanti e una variegata gamma di attività che mi hanno messa a contatto con i più svariati ambienti. Dolori, speranze, separazioni… tutto per farmi diventare quella che sono ora.
Non ho fatto carriera ma la musica è stata per me importante elemento vitale.
Non ho costruito una famiglia ma ho esteso i miei affetti universalmente.
Non ho conquistato una posizione economica e sociale, ma la mano della provvidenza ha avuto sempre cura di me.
Mi sono arricchita di valori interiori per cui so che vale sempre la pena di vivere, nel dolore e nella gioia, perché la vita è un dono prezioso.
Ma a volte non ho potuto fare a meno di chiedermi come sarebbe stata la mia vita se dittatura e guerra non avessero condizionato le sorti mie e della mia famiglia.
Ho voluto raccontare le cose accadute a una ragazza qualunque nata nel tempo di una ventennale infame dittatura.
E’ una piccola storia: quella grande è stata scritta e raccontata dai più grandi protagonisti.”
Ho scelto di chiudere le citazioni con le parole semplici di Adriana Barberi, perché apparentemente “poco ribelli”: in realtà ci consegnano messaggi di grande valore, non per il passato, bensì per il presente e il futuro. Quante donne potrei ancora ricordare, donne diverse, importanti o meno: potrei parlarvi di Rina Musso oppure di Giuliana Gadola Beltrami, o di Maria Peron, Ester Maimeri, Amelia Maccarinelli, Maddalena Albertinazzi, Anna Marengo e tante altre: nomi e storie di donne che si sono battute e sono state protagoniste del ‘900. Le loro memorie sono conservate in Istituto a disposizione di chi vorrà saperne di più, scoprire, approfondire. Diciamo, dunque, che la memoria delle donne è ben presente negli archivi dell’istituto. Ma vorrei anche ricordare che il primo libro che l’Istituto pubblicò fu un libro di due giovani ricercatrici di allora: un libro sulla partecipazione dei cattolici alla lotta di liberazione. E mi piace rimarcare la nutrita e competente presenza di ricercatrici nell’Istituto e potrei fare un excursus sulle tante pubblicazioni che sono state promosse a firma di donne o sulle donne: ricordo solo un piccolo, importante convegno che abbiamo organizzato qualche anno fa in collaborazione con il Centro Studi Dolciniani: si intitolava “Donna Terra Libertà”, titolo quanto mai azzeccato, così come le bellissime relazioni.
E potrei continuare con altri significativi esempi, invece vorrei ora concludere raccontandovi di due fallimenti di altrettante proposte: dell’Istituto, certo, ma non solo. E lo faccio per esortare tutte le donne e gli uomini a riprendere, come oggi, il discorso interrotto, perché quelle proposte erano valide e lo sono tuttora: non hanno trovato gambe, intelligenze e sostegno per andare avanti. Tutto qui.
Una ventina di anni fa, durante un corso di formazione da documentalista, proponemmo alle stagiste che frequentavano l’Istituto, come sperimentazione, di inventare un progetto concreto e proponemmo loro di simulare la costruzione di un centro di documentazione di storia delle donne. Al termine dei lavori, vista non solo la passione delle protagoniste, ma la straordinaria bontà e fattibilità del progetto, lo proponemmo alla Provincia di Novara, alla Commissione Pari Opportunità. L’idea piacque molto e si partì: intitolammo il centro a Gisella Forleanini. Così nacque il Centro di Documentazione di storia delle donne “Gisella”. L’istituto non era certo in grado di mantenerlo anche se la proposta di aprirlo diede immediatamente origine a due o tre iniziative importanti: la pubblicazione di Bortolina, di cui ho parlato, e la produzione di un video molto interessante: I volti del ricordo curato da Mira Montanari e Marco Fontana. Una raccolta di testimonianze di tre generazioni femminili sul tema della trasmissione della memoria, che rappresentava allora una vera pionieristica avventura. Ma il centro non è decollato e le proposte successive di proseguire nella raccolta delle memorie, di allargare il campo della ricerca, ecc. si arenarono nell’indifferenza, soprattutto della politica. Credo che sulla carta il Centro esista ancora, ma in realtà non c’è più e quel patrimonio di donne, ricercatrici, intellettuali, ecc. che si erano avvicinate, è andato disperso. Non le memorie, per fortuna, che sono ben custodite all’Istituto. Ci riprovammo, qualche anno dopo, convinti della necessità di un “luogo” ove poter sviluppare la cultura “al femminile”: se il Centro non aveva avuto successo, ci dicemmo, forse c’era qualcosa di sbagliato, nella formula più che nelle finalità. Così tornammo alla carica e assieme con il Centro Novarese di Studi Letterari proponemmo non un concorso letterario, ché di concorsi e premi ce n’è una moltitudine, ma appunto un luogo di tutela e di lettura della scrittura delle donne. Partendo dal presupposto che le donne scrivono, scrivono per sé a dire il vero più che per gli altri, ma scrivono, ma raramente trovano qualcuno disposto a leggere e far conoscere, ci chiedemmo se non fosse il caso di istituire un “posto” dove queste scritture potessero essere valorizzate. Il “posto” sarebbe poi certamente servito da volano per nuove scritture.
Come detto, non pensammo a un concorso, al meccanismo dei premi, bensì a un punto di incontro per le donne e le loro opere, un punto in cui memorie, poesie, racconti, romanzi destinati al cassetto trovassero attenzione, lettura, valorizzazione. Non necessariamente attraverso la pubblicazione, ma magari solo attraverso la pubblica lettura. E si immaginò una o più giornate di incontro e scambio, di letture e dibattito; una specie di festival della scrittura femminile. E si immaginò di far emergere un mondo sommerso, poco conosciuto, ma certamente affascinante, da valorizzare e far conoscere. Anche questa proposta non ha trovato interlocutori disposti a sostenerla, non è stata capita, si è immediatamente arenata. Perché? Forse perché questa nostra Città ha perso i suoi slanci, la sua capacità di inventare e progettare, forse perché quando si parla di cultura e particolarmente di cultura al femminile scattano meccanismi atavici di pregiudizio e indifferenza.
E’ desolante, lo so, anche se così come oggi, vale la pena, sempre di tornare e lottare. Ce lo hanno insegnato proprio le nostre “donne ribelli”.