L’intervento si snoda lungo alcune linee volte a considerare l’archivio come spazio di una relazione complessa fra due soggetti del discorso storico: le fonti, diretta espressione di soggettività custodite e salvaguardate nell’archivio, e colei o colui che quelle soggettività interroga e investiga. Uno scambio ampiamente dibattuto dalla storia delle donne, e che, oggi più mai, chiama in causa la questione della traduzione delle fonti nei linguaggi della contemporaneità. Linguaggi, in cui, peraltro, il genere è solo parzialmente contemplato. L’intervento insiste a più livelli sulla profonda relazione propria del lavoro d’archivio che porta in scena forme inedite di dialogo e di scoperta e che conduce oggi alla discussione sulla resistenza all’assimilazione alle forme culturali del presente. L’intervento inoltre si concentra sulla fase aurorale della ricerca alla base del lavoro storico. Vale a dire il momento, precedente la decostruzione, l’analisi e l’interpretazione, e in cui la fonte si presenta in tutta la sua solitudine e in tutta la sua composita figuralità. Il momento in cui l’io narrante della fonte, nel muoversi su differenti assi temporali, mostra l’intreccio delle molteplici stratificazioni dell’immaginario.
Nella seconda parte l’intervento chiama in causa i nodi tematici legati al grande scenario della memoria femminile del Novecento emergenti dalle documentazioni degli archivi delle valli. Innanzitutto il tema del lavoro delle donne. Lavoro condotto nelle industrie tessili, meccaniche e alimentari e documentate dalle relazioni delle delegate di fabbrica alle Commissioni sindacali provinciali durante gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Testi molto significativi in cui si evidenziano anche distanze, scarti e discontinuità della soggettività femminile rispetto ai linguaggi e agli schemi dell’organizzazione sindacale e politica ispirata a modelli gerarchici e maschili. In secondo luogo il tema della guerra, che vede protagoniste in particolare le fonti biografiche delle partigiane. Nodo, questo della guerra, in cui la memoria femminile tenta di difendersi dalle lacerazioni prodotte dagli eventi bellici, testimoniando gesti e azioni che umanizzano e trasmettono i valori civili e politici della democrazia.
L’intervento conclude con una riflessione sul tema del corpo, categoria chiave per lo studio della storia delle donne, e che, in particolare nella realtà delle valli, assume caratteristiche specifiche anche in relazione agli immaginari culturali valdo-protestanti.

Graziella Bonansea

Nata a Pinerolo nel 1955, ha studiato a Torino e a Parigi dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia e Civiltà e ha perfezionato la sua formazione all’Università Europea di Firenze. Membro della Società Italiana delle Storiche, ha pubblicato numerosi saggi sulla soggettività, la memoria del trauma e l’immaginario del corpo in riferimento ad alcuni momenti cruciali della storia del XX secolo: il fascismo, le guerre, gli anni cinquanta. Insieme a Bruna Peyrot ha scritto Vite discrete (Torino, Rosenberg & Sellier 1993), uno studio sulla rappresentazione del corpo femminile nella cultura valdese-protestante. Il tentativo di far coesistere più sguardi verso la storia e l’interesse per i percorsi che la memoria segue quando si avvicina ai territori dell’indicibile – tema su cui lavora da molto tempo anche in relazione all’esperienza delle guerre mondiali – l’hanno condotta, a partire dagli anni Novanta, ad aprirsi alla dimensione letteraria. E’ autrice di tre romanzi Margherita madre d’acqua, pubblicato nel ’99 dall’Editore Tre Lune di Mantova, con post-fazione di Barbara Lanati, Come il re e la regina, La Tartaruga edizioni nel 2004, e Tre inverni, La Tartaruga Edizioni nel 2005