Il fondo Pachner tra arte e scrittura: Michela Pachner intervistata da Ferdinanda Vigliani
Ferdinanda: Nella sala qui accanto è stato allestito un bellissimo tavolo carico di stoffe colorate, sari e… faldoni. Acuni di questi faldoni provengono dall’archivio personale di Michela Pachner, altri sono invece quelli che lei ha consegnato a noi come Centro Studi Pensiero Femminile nel 1998. Come parlare del lavoro di Michela? Non è facile perché si tratta di un lavoro multiforme, eclettico che corrisponde al modo in cui lei ha vissuto la sua vita. All’insegna della trasformazione, cambiando nome sovente… Poi magari lei ci elencherà i suoi nomi, ma quelli che io ricordo sono Fiorella, Michela, ad un certo punto ha anche impiegato il nome del marito: Pron. Poi ci sono i nomi assunti nella comunità di Poona, nomi di ispirazione indiana. E così anche il suo laboratorio, la sua casa laboratorio, ha assunto denominazioni diverse. Ad un certo punto, e questo mi pare significativo, si è chiamato “Laboratorio della Norma”. Certo la vita di Michela Pachner ha messo in discussione molte regole, ma questo significa caos? No! Significa Norma. Ma allora, Michela, quali sono le regole che hai seguito nel tuo lavoro e nella tua vita?
Michela: Lo sai bene. Io non sono per niente sregolata. Anzi sono piuttosto pignola. Sono anche confusionaria perché la mattina quando mi sveglio prestissimo ho un desiderio fortissimo al tempo stesso di bagnare il giardino e anche di disegnare e poi anche di fare colazione con qualcosa che non sia un prodotto industriale. Però poi questo mio modo di entusiasmarmi per quello che la vita mi manda fa sì che le giornate non mi bastino mai. Sulla messa in discussione delle regole la storia è lunga. Comincia dal gran ceffone che a 8 anni beccai dalla mia maestra delle elementari perché avevo inciso sul banco «Abbasso il Duce, via il Negus» [risate]. Però la mia attenzione alla vita ha fatto sì che guardassi bene le facce e allora che mi riuscisse anche di fare dei ritratti belli.
Ferdinanda: Se noi andiamo a guardare nei faldoni che ci sono sul tavolo, noi troviamo una domanda che si pone quasi come un’ossessione: «Chi sono io?». L’archivio è un tuo modo di rispondere a questa domanda?
Michela: Cavoli! Altroché. Che ciò che abbiamo conservato riguardi la nostra parte maschile o la nostra parte femminile è sempre una convenzione. Certi quadri li guardo adesso e mi dico che non sono stata io a fare quei quadri. Ho fatto una fatica da battilastra per fare i quadri di acciaio inox. Ancora adesso tutti li guardano. Avevo circa 50 anni quando li ho fatti, poi sono partita per l’India e ho vissuto tra la gente del mondo con pochissimi soldi…
Ferdinanda: La ricordo quella fase. Era l’inizio degli anni Settanta, quando ci siamo conosciute e ricordo di averti chiesto: «Sei una pittrice?» e tu mi hai risposto: «No, sono un metalmeccanico» [risate]. Era il periodo dei quadri di acciaio.
Michela: Ero incazzata nera. Mi ero accorta in ritardo che facevo un lavoro faticosissimo, pochissimo pagato e che poi non mi piaceva neanche tanto. Però fu utile perché tramite quel lavoro su acciaio inox 18.8, che era il più duro da raspare e da respirare, io capii che la mia grande passione era proprio il contrario: era il colore. Così adesso, arrivata a 80 anni mi concedo il lusso di fare dei quadri fatti di un decina di pennellate, morbide, e mi dico bravina se con un rosso e un bianco riesco a fare 15 tonalità diverse. Di questo devo dire grazie a una donna… e qui vorrei che mi diceste perché per i torinesi io sono nota come allieva di Felice Casorati, mentre il massimo di quello che può dare una maestra donna a una giovane ragazza spaurita io l’ho ricevuto dalla mia maestra Evangelina Alciati, alla ricerca esclusiva della soddisfazione emozionale.
I giorni in cui riesco a staccare il telefono, non rispondere al cellulare, non aprire la porta, davanti a un pezzo di legno che è il residuo di un pavimento smontato, con un rosso e un bianco talvolta riesco ad avere un arancione e un fucsia!
E questo ve lo dico proprio volentieri, perché magari alcune di voi vanno a uno di quei corsettini, tenuti da un uomo – perché a Torino solo gli uomini vengono pagati – sappiate che le vere maestre sono donne! Di recente ho scoperto che una ragazza che da me è venuta e ha dipinto, disegnato, danzato e tentato di cantare, poi si è iscritta a un corsettino di uno, un uomo naturalmente, che insegna a fare i paesaggetti…
Io, anche se magari non sembra, oggi ho fatto un quadro. E l’ho dedicato a voi. Anche se non ho la presunzione di credere di poter ritrovare l’innocenza che ho visto nelle donne indiane che pulivano un trattore avvolte nel loro sari rosa, il mio quadro è fatto da pezzi di luoghi del mondo che ho visto.
L’ho fatto disponendo degli stracci colorati che vengono da tanti mercatini del subcontinente indiano, da Goa, dai tanti posti dove sono riuscita ad andare. Quello, con le foto e i cataloghi raccolti durante la mia vita, anche se non è un paesaggetto è un quadro, e io l’ho fatto per voi.
Abstract:
Intervistata da Ferdinanda Vigliani, Michela Pachner risponde alle seguenti domande:
– La tua casa-studio per alcuni anni si è chiamata Laboratorio della Norma. E la tua è una vita che ha messo in discussione parecchie regole, ma la Norma è una regola. Quale?
– Negli album che ci hai portato appare spesso ripetuta la domanda “Chi sono io?”
– L’archivio risponde alla domanda chi sono io?
– Spesso ti ho sentito dire che le cose devono avere un’aria FRESCA.
– Che cosa vuole dire?
– Ti ho anche sentito dire che “Ci vuole ordine e pulizia associato a qualcosa di selvaggio”.
– Che cosa intendi dire?
– Che cosa ha rappresentato per te l’India?
– Perché non ti piace il ‘700?
– Qualcuno dice che la tua casa-studio mette inquietudine. Sai spiegare perché?
– Che cosa ha fatto sì che tu abbia lasciato un tuo fondo archivistico al Centro Studi Pensiero Femminile?
Michela Pachner è stata allieva prima di Evangelina Alciati e poi di Felice Casorati. Disegna e dipinge da quando aveva 6 anni e dunque il suo archivio rispecchia un lavoro di 75 anni. Archivio e casa-studio che, come una conchiglia, è in continua evoluzione.
Dal 1997 frequenta il Centro Studi Pensiero Femminile a cui affida un importante fondo archivistico costituito da 18 faldoni contenenti disegni, documenti e fotografie e due opere in plexiglass e neon: ritratti di Angela Davis e Virginia Woolf appartenenti alla sua serie “I luminosi” del 1972.
La sua preferenza per forme espressive non tradizionali (performances, comportamenti, allestimenti ambientali) ha fatto sì che la sua attività artistica sia stata caratterizzata da una certa criticità rispetto al mercato dell’arte e i suoi circuiti tradizionali.
Ferdinanda Vigliani, avendo frequentato l’università in pieno Sessantotto, ha partecipato ai fermenti politici dell’epoca, soprattutto attraverso il teatro di strada. Su questo tema ha pubblicato nel 1975 il libro Giubilate il teatro di strada.
Dai primi anni Settanta, ha fatto parte di un gruppo di autocoscienza ispirato al pensiero di Rivolta Femminile e nel 1995 ha concorso a fondare il Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile di cui oggi è presidente.
Ha curato con Aida Ribero, nel 1998, per la Casa Editrice Tufani, 100 titoli. Guida ragionata al femminismo degli anni Settanta e nel 2003 ha pubblicato con Rosenberg&Sellier “Non è per niente facile. La relazione tra i generi all’età del primo amore”.
Fa parte del comitato promotore e del gruppo fondatore dell’Associazione culturale Archivio delle Donne in Piemonte