Ho scelto per il mio intervento il titolo“Gli archivi piemontesi e la società civile”, perché ho una particolare passione per gli archivi delle istituzioni culturali. Qual è il legame tra gli archivi culturali e la società civile?
Quando ho iniziato il mio lavoro di funzionaria in Regione all’inizio degli anni ’90 una delle prime persone che ho conosciuto è stata Ada Gobetti, che mi ha dato questo grosso insegnamento: tu sei un’archivista (io vengo dalla Scuola dell’Archivio di Stato, avevo un’idea molto istituzionale e statalista degli archivi). Lei mi ha detto: gli archivi degli istituti culturali sono più incompleti, meno classificati, meno conoscibili, più chiusi, ma sono quelli utili per fare la storia della società civile, per fare una storia diversa da quella delle istituzioni. E questo, soprattutto per il Novecento, soprattutto per il ventennio, per tanti periodi della vita e della storia dell’Italia, è fondamentale. E’ un insegnamento che io mi sono portata dentro in questi 17 anni di lavoro per gli archivi, e che ho cercato anche di sviluppare aiutando gli istituti culturali ad essere veramente dei poli di raccolta e di valorizzazione degli archivi.

Effettivamente in tante occasioni (la prima esperienza è stata quella degli archivi sindacali, alla fine degli anni ’80, e poi l’esperienza particolare del salvataggio degli archivi dei partiti, nel momento esplosivo della loro crisi alla fine della Prima Repubblica) le istituzioni culturali sono state fondamentali.

Questi tipi di carte, e soprattutto le carte di singoli militanti, difficilmente avrebbero potuto essere depositate in un Archivio di Stato o all’archivio di un grande comune.
In quella situazione alcuni militanti che avevano a cuore la salvaguardia delle carte hanno saputo individuare, a volte non con facilità, gli istituti culturali come luoghi in cui versare quelle carte e letteralmente salvarle dalla perdita.

Credo che questo sia un discorso molto importante: che esistano istituzioni che possano essere dei luoghi in cui riconoscere un’affinità. e che in questo ambito, gli archivi delle donne, possano nascere e svilupparsene di nuovi.

Una signora stamattina diceva: come posso fidarmi ad alienare a qualcuno il mio archivio? Ebbene, la fiducia può nascere soltanto dall’esperienza degli archivi di altre donne, di altre persone. Se un’istituzione, un’associazione ha trattato bene, ha conservato, ha reso disponibili nel rispetto della privacy gli archivi già ricevuti, probabilmente ne riceverà altri; non solo, probabilmente riceverà anche l’aiuto dell’ente pubblico: nel settore dove ho lavorato in questi 17 anni abbiamo sempre teso a privilegiare le buone professionalità e i buoni risultati di valorizzazione delle carte.

Detto tutto questo riguardo all’importanza e al ruolo degli istituti culturali, va anche detto quello che ho già anticipato nel mio abstract preparato dalle organizzatrici di questo convegno: ho consultato un censimento fatto ormai circa 10 anni fa, degli archivi delle istituzioni culturali piemontesi di rilevanza regionale, e ho trovato davvero pochi fondi riconducibili a donne , e questo mi ha creato degli interrogativi, perché in realtà possono esserci molti motivi (su cui adesso non mi soffermerò). Sono domande retoriche , si tratta di interrogativi che hanno già tutti in sé la risposta , ossia bisogna capire se la scarsità di archivi e di fondi di donne all’interno degli istituti della cultura piemontesi (parliamo sia di istituti quali le Accademie – di Medicina, di Agricoltura, delle Scienze, ma anche di enti contemporanei, l’Istituto Salvemini, l’Istituto Gramsci, la Fondazione Nocentini, ecc.) rispecchia una scarsa produzione, ossia: ci sono pochi fondi di donne perché le donne hanno scritto poco, hanno lasciato poco. Su questo chiacchieravo con una collega stamattina, e ci dicevamo: in fondo lavoriamo a tempo pieno, abbiamo messo al mondo dei figli, qualcuna di noi tenta anche di fare un po’ di militanza politica, le più grandi di noi hanno anche il problema dell’assistenza agli anziani….. schiacciate qui in mezzo, cosa volete che scriviamo? è già tanto se respiriamo…Quindi io credo che una prima risposta a questa scarsità di fondi sia dovuta al fatto che le donne hanno meno degli uomini tempo da dedicare alla produzione documentaria.
Tra l’altro Marilla Bacassino diceva stamattina che in un certo periodo sembrava quasi una perdita di tempo, un uscire dal movimento mettersi a raccogliere e conservare delle carte…..

Un’altra possibile  motivazione è che le carte siano state prodotte ma sia molto difficile conservarle, e questo Convegno può proprio essere l’occasione per rilanciare questo obiettivo.

Questo, dalla mia esperienza è un problema comune agli archivi personali, di militanti politici, sindacali, ecc. , non è un problema di genere. Anche per gli archivi maschili, una volta che venga meno, che muoia la persona che ha conservato quelle carte il recupero è molto difficile; come diceva poco fa Nicoletta Giorda, destinate le vostre carte per tempo. E’ comunque probabile che gli archivi prodotti dalle donne siano meno conservati; se sono meno conservati è perché le donne che fanno militanza nel movimento delle donne non hanno ancora trovato un’istituzione di cui fidarsi (una delle domande di stamattina andava proprio in questo senso).

E quindi io credo che questa di costituire una casa degli archivi delle donne sia un’operazione non solo importante ma effettivamente necessaria per conservare la memoria.
Per fare una breve panoramica di ciò che ho censito negli archivi degli istituti culturali, come sempre sono documentate di più le azioni, le attività legate ai mestieri femminili. Per esempio una piccola istituzione culturale, che ha però un ruolo importante, la Fondazione Colonnetti, che si occupa di educazione, ha alcuni archivi di maestre.

Sono più conservati gli archivi delle donne che hanno fatto parte dell’alta borghesia o della nobiltà , delle élite, donne che hanno potuto fare politica in un’epoca in cui le altre era già tanto se si guadagnavano il pane ; quindi abbiamo alla Fondazione Rosselli lo straordinario archivio di Amalia Rosselli nonché dei suoi antenati, quindi con una parte Risorgimentale, di estremo interesse.

Come abbiamo presso il neonato Centro studi Lamarmora di Biella – che unisce molti importanti archivi di famiglie non solo piemontesi – archivi di donne  che hanno organizzato l’assistenza ai soldati durante la prima guerra mondiale, ma si trattava di donne che avevano una cultura e un livello sociale assicurato, e potevano quindi fare un di più, e non sempre è così.

Per quanto riguarda gli archivi dei partiti, mi ha colpito l’archivio della Democrazia Cristiana che per certi versi inaspettatamente è uno dei più ricchi di carte relative alla specificità femminile, ma anche in questo caso con dei ruoli molto determinati, per esempio organizzare le cene per fare eleggere il marito, guadagnandosi però negli anni anche un ruolo da candidate esse stesse , con un andamento un po’ simile a quello dell’imprenditoria femminile.

Ascoltando la ricchissima mole di interventi di oggi ho avuto la percezione che le carte delle donne siano in nessun posto e dappertutto; nei fondi documentari dei ambito resistenziale  le donne non sono censite come combattenti: cucinavano, tenevano i fondi, facevano le staffette. Il loro ruolo non istituzionale costringe ancora una volta a andare a cercare testimonianze fuori dai sentieri più facilmente tracciati.

Quindi credo che per trovare testimonianze femminili consistenti negli archivi bisogna andare molto a fondo, fare un lavoro di censimento come hanno fatto loro anche negli archivi delle associazioni femminili e femministe. Stamattina si parlava dell’archivio della Casa Editrice Einaudi: è stato un intervento finanziato da contributi della Regione, dello Stato e delle due grandi fondazioni bancarie torinesi e che proprio per questo dovrà essere reso pubblico, con tutte le cautele del caso.

Insomma, tante suggestioni, penso che il risultato di tutto questo debba essere proprio un luogo in cui possa esserci la fiducia a lasciare le proprie carte , approfittando ancora di quella possibilità di rapporto tra il produttore delle carte e l’archivista che è stato così magnificamente illustrato dal rapporto tra Paola De Ferrari e Alessandra Mecozzi. Una cosa che ha detto Alessandra Mecozzi mi ha colpita moltissimo: rivedendo la struttura che ha dato Paola al mio fondo archivistico mi sono tornate in mente delle cose, e questo è quello che ogni archivista spera di fare, anche se riordina un archivio del ‘300, cioè di ricostruire ciò che quella persona aveva fatto, aveva pensato, aveva voluto realizzare. Se questo lo fai con una persona ancora vivente , con cui puoi confrontarti, i risultati io credo che siano esponenziali.

Quindi speriamo di poter aiutare in qualche modo almeno la prosecuzione del censimento e magari in alcuni di questi casi, quando le carte non siano riordinate, magari un approfondimento della loro descrizione fino al livello inventariale; speriamo si possa progettare per il futuro, magari in associazione con qualche altra iniziativa di questa Casa degli archivi delle donne.

Consentitemi adesso di spogliarmi del mio ruolo tecnico di archivista e del mio ruolo istituzionale come funzionaria della Regione Piemonte e di fare un discorso politico, come singola cittadina. E’ tutto il giorno che mi frulla in testa un pensiero. Viviamo in un momento di crisi profonda della politica. Io credo che tra le altre cose questa crisi sia dovuta anche alla perdita della memoria dei movimenti che tanto hanno appassionato noi quando, come diceva Nicoletta, avevamo 20-30 anni (io ne avevo 18); perché la grande componente di valori e anche di ideologie del movimento studentesco, del movimento operaio di quegli anni è stata annullata dalla tragedia del terrorismo. Questo invece non è avvenuto per la grande esperienza coeva del movimento delle donne, e forse da lì, dalla memoria di questo movimento si può ripartire per una rifondazione della politica, per rifarci di nuovo, finalmente, a degli autentici valori.

Abstract:
Il titolo che ho scelto per il mio intervento deriva dall’ormai approfondita conoscenza, e notevole “simpatia” per gli archivi delle Istituzioni culturali piemontesi, di cui mi occupo da ormai un decennio. Degli istituti culturali piemontesi ho potuto scoprire la molteplicità e la ricchezza dei fondi conservati, l’importanza per il ruolo specifico e insostituibile nel campo della raccolta, conservazione e valorizzazione degli archivi di prevalente origine privata. Tali fondi – di origine personale o prodotti da associazioni e movimenti – hanno trovato nelle istituzioni culturali la sede più idonea alla loro conservazione: i produttori delle carte o i loro eredi, infatti, si sentono rassicurati in merito sia a caratteristiche di indirizzo culturale a loro affini, sia a condizioni di consultabilità e promozione concordate.
Le raccolte vengono così ad assumere una specificità significativamente alternativa ai beni culturali di origine e di proprietà pubbliche. In particolare la consultazione dei fondi bibliografici e archivistici è spesso indispensabile per una ricostruzione storica completa, che non tenga presente solo il punto di vista delle istituzioni pubbliche, ma anche quello più ampio della società civile. La disponibilità di questa tipologia di fonti è premessa fondamentale per avviare non solo una nuova storiografia del Novecento, ma può essere anche un ausilio ad altre scienze, quali la sociologia ecc. Tale ruolo di promozione della ricerca e di raccolta di importati patrimoni culturali oggi sempre più va assumendo importanza nella misura in cui rispecchia appieno l’applicazione del principio di sussidiarietà.
Per preparare questo intervento sono andata a riguardarmi i risultati di un censimento dei fondi archivistici degli istituti culturali di rilevanza regionale, un po’ vecchiotto perché del 1998, ma ancora interessante per la completezza del lavoro. Ne è scaturito un interrogativo che vorrei sviluppare nel mio intervento: gli archivi di cui siano soggetti produttori le donne sono meno di ¼: mi chiedo allora se la conservazione degli archivi rispecchi la loro creazione, ossia se la presenza minoritaria di fondi di donne è riflesso di una scarsa produzione, di una esigua partecipazione alla politica e alla cultura o se le donne abbiano lasciato meno di scritto, o, ancora, se i loro eredi abbiano considerato poco importanti le loro carte e le abbiano lasciate disperdersi.
Sicuramente le risposte alla mia domanda verranno soprattutto dal lavoro di censimento svolto da Sabrina Contini e Paola Novaria, ma qualche ragionamento si può fare fin d’ora.

Gabriella Serratrice. Laureata in storia del Risorgimento presso l’Università di Torino, dopo aver collaborato con l’Archivio di stato di Torino ed essere stata conservatrice dell’Archivio storico del Comune di Savigliano, è dal 1990 funzionaria dell’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte, ove è titolare dell’incarico di Alta professionalità “Esperto nello sviluppo della banca dati regionale in materia di Beni archivistici e documentari e valorizzazione degli archivi e degli istituti culturali”. Dal 2004 è docente a contratto presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino per l’insegnamento di “Archivistica informatica”.