Montefibre: la lotta per la riconquista del lavoro – Anna Colombo
Ho cominciato a lavorare in fabbrica – allora “Nailon” – settore della Rhodiatoce a quattordici anni appena compiuti. Avrei voluto studiare, ma non era possibile, c’era bisogno di soldi in casa e quindi la scelta era obbligata.
Fui assegnata al reparto “rocchiera” dove si lavorava a cottimo per poter racimolare qualche soldo in più. Le operaie, quasi tutte giovanissime, si davano molto da fare.
Intanto la fabbrica si arricchiva di molte lavorazioni, fra le quali l’“orditura”, dove – per essere addette ad un orditoio – occorre un lunghissimo tempo di apprendistato.
Questo lavoro si svolgeva su tre turni di otto ore e quindi entravano nell’organico anche gli uomini, che in prevalenza facevano il turno di notte.
Tra gli addetti c’era una grande discriminazione perché gli uomini avevano la prima categoria, le donne la terza, e io – che svolgevo un lavoro di controllo su tutti – la seconda.
Dopo una lunga lotta (nel 1969) ottenemmo finalmente la parità di trattamento, ma a quel punto intervenne l’accordo “aprile 1973”.
Questo accordo prevedeva una nuova fabbrica nell’area di Mergozzo, ma nel frattempo cessava la lavorazione dell’orditura e noi uscivamo in cassa integrazione.
Fummo subito consapevoli che era un inganno, ma fummo costretti a subire.
Il tempo passava, ma della nuova fabbrica a Mergozzo neppure l’ombra.
A quel punto cominciammo ad interrogarci sul da farsi, ma non sapevamo come organizzarci.
Eravamo fuori dalla fabbrica, con difficoltà ad incontrarci, senza nessun appoggio, neppure da parte del sindacato, che continuava a sperare nella realizzazione del famigerato accordo del 7 aprile 1973.
Decidemmo di fare dei picchetti fuori dalla fabbrica negli orari di uscita degli operai. Non eravamo in molte, quasi tutte donne, ma molto determinate a riprenderci il nostro posto di lavoro.
Gli operai che continuavano a lavorare ci guardavano con una certa curiosità, non capivano cosa volessimo con questa nostra presenza, anzi, erano anche un po’ preoccupati perché stava cominciando a serpeggiare una particolare idea: il sacrificio di una certa quota di lavoro significava forse la sicurezza per gli altri…
A quel punto chiedemmo di fare delle assemblee in fabbrica e lì avvenne il miracolo: riuscimmo ad ottenere la solidarietà dei compagni di lavoro.
Da parte nostra, seguivamo il sindacato nelle varie riunioni che si susseguivano continuando a ripetere che volevamo il rispetto dell’accordo. Ricordo che a una riunione a Torino venne proposto da Bertinotti di chiedere la cassa integrazione a rotazione per permettere il nostro rientro in fabbrica. Cosa che si realizzò, per la prima volta in Italia.
Purtroppo però il destino della fabbrica era segnato e dopo alcuni anni cessò la lavorazione del nailon e della viscosa e fummo di nuovo esclusi dal ciclo lavorativo, sia pure in modo indolore, ossia con prepensionamenti o trasferimenti.
Penso però che sia stato un grave errore, oltre che per la ricaduta sul sociale, anche dal punto di vista economico.
So, perché mi è stato riferito da tecnici che andavano anche all’estero per consulenze, che nessuno è riuscito a riprodurre la fibra nailon della qualità che aveva quella di Verbania.
Anna Colombo
È nata a Pallanza nel 1936. Ha lavorato in fabbrica dal 1950 al 1985 ed è stata delegata di reparto dopo il 1969.