Divina  [1] è un’esperienza teatrale degli anni Novanta rimasta ai margini del discorso critico e storiografico, nonostante la sua pregnanza culturale. Osservatorio femminile sul teatro contemporaneo,  organismo plurale e polifonico, Divina è nata nel 1990 da una collaborazione feconda fra le donne appartenenti a Teatro Settimo e due docenti universitarie, ed è stata attiva fino al 1998, progettando e organizzando convegni internazionali, rassegne di teatro, incontri e seminari.

Divina ha un ricco profilo identitario: è un laboratorio di arte e di pensiero, un luogo in cui si agisce creativamente sul pensiero delle donne negli anni Novanta, una “casa” per le artiste che vogliono produrre teatro mettendo in gioco il punto di vista femminile, infine un ambiente accogliente in grado di farsi incubatore di processi creativi e di sapersi connettere ai processi di autonomizzazione della scrittura femminile delle attrici.

Impresa collettiva, caratterizzata dalla compresenza di più anime, Divina si può leggere come biografia di gruppo. La trasformazione di questa caratteristica – il suo essere impresa plurale, collettiva – in primo criterio di problematizzazione, mi ha permesso di interrogarne la storia evidenziando la tensione creativa fra le sue componenti e di ricostruirne la biografia attraverso una narrazione critica, di valore non semplicemente documentale.

Fin da subito le protagoniste di Divina mostrano competenze e ruoli diversi; come ho chiarito con le interviste raccolte per la tesi di laurea[2], il progetto  nasce dall’intersezione di tre profili, tre identità. Da un lato ci sono le imprenditrici culturali, Antonia Spaliviero e Maria Grazia Agricola, che non ricoprono un ruolo di semplici organizzatrici, ma quello ben più complesso di “incubatrici di impresa”: sono pronte a cogliere e a elaborare all’interno di Divina il pensiero e la cultura delle donne di quegli anni, trasportandolo nell’ambito del teatro attraverso la promozione di una collana editoriale su “donne e teatro”, numerosi convegni e spettacoli. Svolgono un’importante funzione mediatrice tra l’anima più intellettuale, interessata soprattutto ad una riflessione teorica, e quella artistica, più orientata verso un’attività di tipo pratico-spettacolare.

L’anima intellettuale di Divina è composta da Barbara Lanati e Paola Trivero, entrambe docenti all’Università di Torino, definite dalle altre protagoniste “alleate stimolanti”, il cui contributo fornisce occasioni e opportunità per scambi intellettuali ricchi e altrimenti difficilmente realizzabili. Penso all’importantissimo ruolo di “go-between” tra Divina e le intellettuali italiane e straniere invitate ai convegni che favorisce contatti e crea reti di relazione tuttora attive e importanti per molte donne di Divina.

Infine l’anima delle teatranti è composta in prevalenza dalle attrici di Teatro Settimo, storica compagnia del teatro di ricerca italiano (1974-2002) con sede in provincia di Torino. Laura Curino, Lucilla Giagnoni, Mariella Fabbris, Roberta Biagiarelli, Adriana Zamboni (nella doppia veste di attrice e grafica) e Simona Gonella (come regista) sono fin dagli esordi protagoniste dell’esperienza, e condividono con le imprenditrici culturali l’appartenenza al gruppo Teatro Settimo e, ancor prima, l’adolescenza trascorsa a Settimo Torinese, “città purgatorio”[3], “un posto che sembrava non avesse nulla da darci”,[4] e la comune militanza in un collettivo femminista. La decisione di realizzare un osservatorio femminile sul teatro contemporaneo non può non tener conto del trascorso biografico delle teatranti, che all’inizio degli anni Novanta avvertono la necessità di una “stanza tutta per loro”. Pur non essendo mai completamente autonoma e indipendente dalla “famiglia” Teatro Settimo (un gruppo misto a leadership maschile, poiché le regie sono solitamente firmate da Gabriele Vacis), Divina permette loro di realizzare, sperimentare e focalizzare l’attenzione su tematiche e aspetti del teatro contemporaneo in genere poco considerati.

Alle tre anime che caratterizzano Divina – le imprenditrici culturali, le intellettuali e le attrici – sembrano corrispondere, a mio avviso, i tre obiettivi dell’associazione: l’essere dinamica impresa culturale, capace di creare network di competenze e di comunicazioni al femminile dentro alla realtà europea, il divenire Centro Studi sul modello dei Women’s Studies anglosassoni e infine il creare una rete di organizzazione, produzione e distribuzione di spettacoli e laboratori.

Nella volontà di intersecare le tre identità e di realizzare i tre obiettivi ritrovo la straordinarietà di Divina, una realtà che vuole essere una risposta intelligente al dibattito interno al femminismo italiano, intensificatosi nei primi anni Novanta, su “quale tipo di rapporto sia preferibile intrattenere con le strutture patriarcali di trasmissione del sapere, e in particolare con l’istituzione universitaria”[5]. Nata dall’intersecazione delle tre identità citate, ognuna delle quali porta modalità differenti e culturalmente determinate di militanza e di soggettività femminista, Divina si propone come una realtà in grado di andare oltre la  sterile opposizione tra esperienza e teoria[6]. Nelle sue iniziative coniuga la riflessione teorica italiana e internazionale con le pratiche artistiche, aprendo reali possibilità di scambio tra chi vive quotidianamente il mondo del teatro, chi lo studia, e chi lo organizza e lo promuove. In alcuni momenti, Divina realizza un incontro effettivo fra l’esercizio intellettuale degli Women’s Studies e il femminismo italiano, contraddistinto dal “radicamento nella pratica politica dei rapporti tra donne, in un circolo di esperienza e teoria che non perde i rapporti con l’esperienza”[7].

Raccontare Divina ha significato per me poter coniugare il teatro, materia dei miei studi, con lo sguardo femminile, sguardo che cerco e in cui mi ritrovo, ma che troppo spesso è stato tenuto ai margini del discorso culturale. Riscoprirne la storia non è stato un lavoro semplice, perché Divina è stata doppiamente penalizzata, in quanto esperienza teatrale e in quanto esperienza di donne: quasi nulla è stato scritto su Divina, ad eccezione di pochi articoli[8].

Nel corso della mia ricerca mi sono scontrata con una forte rimozione, che certamente accomuna Divina alla sorte di altre realtà teatrali contemporanee[9], ma è forse anche più profonda e sintomatica perché Divina non appare mai nemmeno in quegli articoli e in quelle riviste in cui si cerca di contrastare l’oblio che avvolge il nuovo teatro italiano offrendogli spazio e voce. Con la morte di Divina, la capacità di dire e mostrare la modalità femminile nel teatro di gruppo è sparita dalla storia e dalla memoria ufficiale di Teatro Settimo. Probabilmente questo è successo perché la fine traumatica dell’esperienza (la rottura dei legami di fiducia fra le protagoniste) ha contribuito a rimuovere persino dalla loro memoria l’importanza del percorso intrapreso[10]. Ma non è solo questo: è anche in funzione il canone culturale egemone, che, con troppa facilità, tende a escludere dalla scrittura storica l’esperienza femminile.

Con il lavoro di tesi ho quindi cercato di contrastare l’oblio. Ad una prima fase di scavo e di recupero di notizie, utile per riscoprire e valorizzare Divina, è stato fondamentale affiancare un lavoro di messa a fuoco e di analisi delle attività delle protagoniste, intrecciando repertori concettuali afferenti agli studi di genere e alle discipline teatrali, in uno sforzo teso a individuare una specificità e un’originalità non derivanti semplicemente dall’appartenenza ad un genere naturale, ma la cui differenza va riconosciuta piuttosto come frutto di “una struttura sociale che colloca uomini e donne in posizioni asimmetriche rispetto al linguaggio, al potere sociale ed economico e ai significati”[11].

Riflettere su Divina partendo da queste premesse mi ha consentito di comprendere in maniera più consapevole l’importanza di questa “ stanza tutta per noi”, forse un luogo necessario per tutte quelle donne che, dopo anni di lavoro all’interno di collettivi strutturati con una forte leadership registica, sentono il bisogno di ritrovarsi fra loro e sperimentare altri modelli di esperienze creative e altre modalità con cui praticarli, il che non significa necessariamente abbandonare il gruppo a cui si appartiene, ma significa regalarsi un’uscita, una possibilità di fuga che arricchisca, rafforzi e autolegittimi se stesse e il proprio lavoro.

Fra la realtà mista – Teatro Settimo – e quella dell’impresa di genere – Divina – intercorrono dunque dinamiche complesse che possono essere lette a mio avviso attraverso l’interessante prospettiva offerta dagli studi di storia delle donne, in particolare dal lavoro di Lucia Ferrante, Gianna Pomata e Maura Palazzi Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazione nella storia delle donne[12]. Dalla categoria di patronage, intesa come “strumento di analisi dei dislivelli di potere esistenti fra i due sessi che rileva l’inadeguatezza dello schema uomo oppressore/donna oppressa”[13], vorrei mutuare i concetti di scambio, interdipendenza, condizionamento reciproco e complementarietà perchè, a mio avviso, caratterizzano anche il rapporto tra Settimo e Divina. La loro relazione infatti ripropone molte dinamiche del rapporto di coppia uomo/donna. Sussiste tra il gruppo e l’associazione un “sistema di scambio, seppure ineguale, fra due soggetti parimenti attivi tra i quali si rileva la presenza di legami affettivi e di gratitudine”[14]. E’ una relazione dialettica, delicata e conflittuale, agita da donne e uomini profondamente legati nella vita e nel lavoro artistico.

Divina è un organismo al cui interno donne di teatro riflettono sulla loro esperienza artistica e sulla loro condizione, accompagnate, nel “desiderio di specificare la propria ricerca”[15], da intellettuali e studiose attente all’arte delle donne.

Indirizzare lo sguardo sull’intreccio poco frequentato tra performance contemporanea e studi di genere è stato quindi indispensabile per poter leggere Divina come un’esperienza capace di far lievitare la creatività artistica all’incrocio col pensiero femminista contemporaneo.

Da qualche anno frequento questi studi affascinata dagli sguardi e dalle inedite visuali che essi propongono. Ho trovato, soprattutto nelle riviste storiche del pensiero femminista italiano, “Via Dogana”, “Lapis”, “DWF”, sezioni dedicate al teatro. Anche nei libri di Laura Mariani (più volte ospite di Divina) e di Roberta Gandolfi, che hanno intrecciato gli studi sul teatro con la storia delle donne, ho individuato numerosi spunti di riflessione stimolanti per il mio lavoro. Ed è significativa la coincidenza che i loro studi siano iniziati negli anni Novanta, gli stessi anni di Divina, anni in cui si assiste ad una diffusione di azioni e iniziative nel segno della cultura delle donne.

Da un punto di vista più propriamente teatrale, è stato fondamentale confrontarmi con gli studi sul ‘teatro narrazione’, perché le attrici di Divina sono state protagoniste di questo fermento esploso negli anni Novanta come vero e proprio genere, nonostante le sue radici affondino nei due decenni precedenti, a partire dalle esperienze di Dario Fo ( Mistero buffo, 1969) e Giuliano Scabia (Gorilla Quadrumàno, 1974). “Il comune denominatore”, scrive Gerardo Guccini, “pur nella diversità degli esiti, è la capacità di metabolizzare il vissuto e la Storia, di tradurre in pratiche inventive l’imprinting narrativo dell’infanzia e di coniugare identità personale e repertori preesistenti”[16].

Divina è uno spazio importante per le artiste che incominciano ad intraprendere un percorso di ricerca autonomo e sganciato dalle dinamiche di gruppo di appartenenza. Non a caso, durante Divina nascono i primi lavori individuali di Laura Curino, Lucilla Giagnoni, Mariella Fabbris che “individuano nel narrare un valore fondamentale del proprio teatro”[17].

In quella “stanza tutta per loro” le teatranti si esercitano nella simbolizzazione dell’esercizio autobiografico e della narrazione di sé, pratiche care al pensiero delle donne, che nel contesto di Divina acquistano lo spessore sperimentale di percorso d’arte.

Il primo lavoro di ricerca individuale di Laura Curino è Passione (1991). In questo spettacolo l’attrice accosta e ripercorre i personaggi femminili che nel corso del tempo ha incarnato e scopre che sono tutte “madri sostitute”. E’ un lavoro che infila, come in una collana, tutte le perle estrapolate dai precedenti spettacoli che l’attrice fa ora rivivere in un suggestivo impianto drammaturgico di cui lei è autrice. In questi anni Curino non si confronta solo con la narrazione di sé, ma anche con un’altra modalità narrativa, la narrazione dell’altro, il testimoniare le storie di altri. Mi riferisco alla fortunatissima saga sulla famiglia Olivetti, affrontata in due spettacoli, Olivetti Camillo: alle radici di un sogno (1996) e Adriano Olivetti – Il sogno possibile (1998), dove i protagonisti maschili sono in realtà raccontati dai personaggi delle loro donne.

Mariella Fabbris si interroga sul suo lavoro d’attrice con Il mestiere di attrice (1992), una necessità, la sua, dopo anni di lavoro in un gruppo teatrale, di fermarsi a pensare e scrivere, accompagnata da Simona Gonella, una giovane regista da poco entrata a far parte del gruppo. Gonella la aiuta in questo personale percorso di ricerca dentro di sé e diventa indispensabile ‘altra’, specchio che rende possibile lo scavo e che, insieme a tutte le donne di Divina e agli incontri organizzati con altre attrici e studiose, permette a Mariella di riappropriarsi di una tradizione e di scrivere, lei stessa, un omaggio alle grandi interpreti del passato, quasi nel segno di una riscoperta dell’asse genealogico femminile.

Anche Lucilla Giagnoni ha l’occasione di andare in scena da sola con Modelli (1991), un lavoro tratto dalle poesie di Amy Lowell, poetessa americana d’inizio secolo, scoperta e tradotta da Barbara Lanati. Dopo Modelli, grazie alla felice intuizione avuta nel creare uno spazio apposito dedicato ai lavori in corso delle artiste, Divina offre a Giagnoni la possibilità di presentare In risaia (1996).

In sede di analisi, per questi sbocchi creativi dell’“ambiente Divina” relativi all’elaborazione narrativa, oltre alle indagini teatrali mi sono anche riferita al pensiero di Cavarero che, in Tu che mi guardi, tu che mi racconti esplicita l’attitudine femminile al racconto, “al particolare che fa delle donne delle narratrici eccellenti”, che “non [sia] necessariamente una storia che aspiri a immortalarsi nell’empireo letterario, ma piuttosto un tipo di storia il cui racconto si appaesa persino negli angoli delle cucine, davanti a un caffè…”[18].

Più in generale, va segnalata la convergenza fra le biografie femminili in forma teatrale cui danno vita le attrici, e gli studi che fioriscono negli anni Novanta nel campo degli Women’s Studies e della storia delle donne: molte e ricche sono le biografie, filone fondamentale per la riscoperta della tradizione culturale femminile.

Divina dunque è ambiente che rafforza i percorsi d’arte delle teatranti, verso il consolidamento formale e la definizione contenutistica delle loro narrazioni teatrali.

Al contempo e su altro versante, Divina è luogo di elaborazione teorica sui modi e le forme del lavoro artistico e culturale; le imprenditrici culturali insieme alle studiose a alle attrici costruiscono stimolanti ipotesi di percorso, travasando con disinvoltura sperimentale i nodi teorici della cura e della maternità simbolica, cari all’elaborazione femminista italiana degli anni Novanta, ai territori delle pratiche artistiche.

A questo proposito, fra le iniziative più lucide e articolate vorrei segnalare il convegno organizzato nel 1996, dal titolo L’arte discreta della cura della cultura. Patrimonio femminile, capitale maschile?. La valorizzazione simbolica che il pensiero femminista ha costruito intorno al concetto e al lavoro di cura[19] incontra un fertile terreno esperienziale all’interno di Divina, dove l’impulso creativo di qualità femminile è decisamente impregnato di cura: Mariella Fabbris ritiene che Divina nascesse anche dal bisogno di ritrovare “quel clima, quella cura,  in qualsiasi lavoro…”[20], e Edda Melon ricorda quanto fosse piacevole andare al Teatro Garybaldi di Settimo “proprio per l’ospitalità e l’atmosfera molto calda di incontro che [le donne di Divina] sapevano creare”[21].

Nel documento prodotto per il convegno, la tematica della cura, applicata con felice disinvoltura al teatro, permette di portare in primo piano le figure di sfondo, le generatrici nascoste: che si tratti delle organizzatrici e imprenditrici culturali, o che si tratti come in Affinità elettive o negli spettacoli co-prodotti da Divina e Settimo, di raccontare personaggi di spicco dagli inediti punti di vista delle loro donne.

Alle donne viene cioè riconosciuta autorevolezza per curare i progetti altrui, meno spesso accade che possano trovare credibilità, solidarietà, appoggio, e risorse per gestire le proprie idee, specie quando queste idee hanno anche forme originali.

Quanto in questo panorama vi è di deliberato, ma anche di semplicemente distratto, di innaturalmente usuale, di convenzionalmente quotidiano?

La cura, azione quotidiana molto cara alle donne, non è funzione separata da un progetto, ma ne è la vita, se non il progetto stesso. Senza di essa ogni idea non vedrebbe la sua realizzazione, il suo sviluppo, la sua diffusione. Eppure, direzione e cura tendono ad essere concetti e ruoli separati: l’uno prevaricante sull’altro. E’ davvero questo il modo più valido per realizzare le idee migliori? Non sarà necessario, anche e soprattutto nell’ambito culturale, sgombrare il campo da concetti superati che, ad esempio, confondono con assistenza ciò che invece è filosofica necessità di cura? In questo senso, anche in ambito artistico, il patrimonio delle donne è vastissimo, ma pare che a ciò non corrisponda un capitale reale da far fruttare in prima persona: come mai?[22].

Divina insomma propone di mirare il discorso coniugando la riflessione sulla cura a quella sulla direzione; identifica con acume, nella dissociazione fra i due aspetti, un livello problematico della progettazione teatrale e culturale; si chiede fin dal titolo, L’arte discreta della cura della cultura. Patrimonio femminile, capitale maschile?, come mai se a “curare la cultura” sono spesso le donne a loro però non venga affidata quasi mai la gestione delle risorse economiche. Sono molte a curare i progetti altrui, ma poche hanno la possibilità di gestire i propri.

Divina è un’opportunità in più in questo senso. E’ una strada nuova per la valorizzazione della creatività femminile che tiene conto anche degli aspetti imprenditoriali, quelli che, dice Antonia Spaliviero, “continuano ancor oggi a metterci in crisi… si pensa sempre che debba esserci un marito d’arte da qualche parte che debba gestirci o che noi individuiamo nell’ente pubblico, nel finanziamento…”[23].

Il convegno allarga il campo, dal teatro, all’organizzazione della cultura in generale, dimostrando una grande capacità aggregativa di Divina anche oltre il teatro, come risulta dalla lista delle invitate al convegno. Non a caso la maggioranza delle ospiti sono organizzatrici e responsabili di centri, fondazioni, teatri, luoghi in cui l’arte della cura è azione quotidiana e concreta.

Per concludere, vorrei tornare al lavoro svolto per la tesi, e a come esso intrecci due livelli di conoscenza, storia e memoria, come ho ritenuto opportuno sottolineare fin dal titolo (Divina (1990-1998) Storia e memoria di un’esperienza teatrale nel segno della soggettività femminile).  Infatti ho condotto l’indagine sia con gli strumenti della ricerca storica, dunque il lavoro d’archivio confluito nella prima parte della tesi, “Storia di Divina”, che con quelli della ricerca sul campo, ovvero le interviste in profondità alle artiste, organizzatrici e intellettuali che diedero luce a Divina, e che ho trascritto nella terza parte della tesi, “Memorie di Divina”.

Ho voluto lasciare molto spazio ai documenti ritrovati nel fondo archivistico che si trova ora, dopo lo scioglimento del gruppo Teatro Settimo, presso il Centro Studi del Teatro Stabile di Torino, perché sono fonti inedite e preziose testimonianze sulle attività dell’associazione, sulle tematiche affrontate nei convegni e sugli spettacoli presentati.

I documenti d’archivio, che necessitano ancora di un lavoro di catalogazione che li renda accessibili e fruibili al pubblico, si distinguono in due categorie: le fonti scritte e le fonti audiovisive. Le prime si suddividono a loro volta in diversi tipi: i comunicati stampa delle attività svolte, le schede sugli spettacoli presentati nelle rassegne, i progetti e obiettivi dell’associazione, gli appunti e le bozze di progetti non realizzati e infine la rassegna stampa.

Purtroppo le fonti audiovisive sono incomplete. Mancano le registrazioni dell’importante convegno del 1996, L’arte discreta della cura della cultura. Patrimonio femminile, capitale maschile?, si sono salvate, invece, le videocassette dei primi due convegni, Poietica e presenza femminile nel teatro degli ultimi vent’anni (1990), e Arte femminile in scena (1991), di cui peraltro sono stati pubblicati gli atti. Grazie a Edda Melon, docente di Letteratura Francese all’Università di Torino e collaboratrice di Divina, ho recuperato le audiocassette contenenti la registrazione del seminario tenuto da Hélène Cixous nell’aprile 1992 intitolato The school of dreams. E’ stata una piacevole sorpresa l’aver ritrovato nel fondo archivistico di Divina le bellissime foto in bianco e nero scattate da Maurizio Buscarino -uno dei più grandi fotografi di teatro- in occasione del secondo convegno di Divina, Arte femminile in scena, del 1991; infine ho recuperato alcune locandine originali di Divina, che ho voluto includere nella tesi, e che sono particolarmente preziose perché frutto dell’estro grafico di Adriana Zamboni, protagonista di Divina.

Ho ricostruito la storia di Divina seguendo il ritmo cronologico delle edizioni realizzate con scadenza annuale dal 1990  al 1998. All’interno di questa cornice narrativa ho cercato di identificare diverse fasi: le prime iniziative, le formule mature e le progettualità trasversali, al fine di ricostruire una periodizzazione capace di rendere la sequenza cronologica viva e interessante.

Le interviste, invece, sono servite a restituire in un affresco d’insieme la storia di Divina. Senza il loro carico di ricordi sarebbe stato impossibile rendere i documenti vivi e interessanti, proprio perché, come scrive Laura Mariani, citando l’insegnamento di Walter Benjamin: ” i ricordi sono più che fatti, perché incorporano anche i sentimenti legati ai fatti, il prima e il dopo, in una dimensione senza ‘limiti’; presentano la realtà tramite la soggettività. Sta a chi fa la storia poi distaccarsi e distinguere, ma rimane il valore e la bellezza del racconto in sé, che restituisce dimensioni preziose come quelle dei desideri e dei rimpianti”[24].

Ho pensato a uno schema di intervista a domande aperte che consentisse un andirivieni tra le diverse fasi della vita e le diverse tematiche e che tenesse conto dei preziosi spunti trovati nelle riflessioni che in parte ho citato sopra, consapevole che “l’intervista non è solo una tecnica; è un’esperienza umana non fine a se stessa che crea rapporti e scambi e provoca dinamiche in chi intervista e in chi è intervistato”[25].

Le questioni problematiche emerse nel corso della raccolta di interviste sono molteplici. Innanzitutto – dato che la memoria di tutte le protagoniste si era offuscata a tal punto che quasi sempre le intervistate tendevano ad anticipare nella narrazione il problema della fine, facendo così precipitare tutto nel “buco nero” della morte – è stato necessario sottolineare e rimarcare che lo scopo del mio lavoro era quello di resuscitare dall’oblio e dal silenzio l’intensa attività di Divina. In seguito mi sono chiesta come trasformare tante memorie individuali in una biografia di gruppo tenendo conto di quanto mancasse fra le protagoniste una riflessione condivisa a posteriori, e quanto fosse delicato il mio desiderio di voler loro restituire una loro storia.

L’identità di Divina ha iniziato a delinearsi man mano che mi addentravo nella sbobinatura e nella lettura delle memorie. Alternavo alla lettura un fitto dialogo con la mia professoressa che a sua volta stava leggendo le interviste. Mi rendevo conto di quanto le memorie fossero tra loro complementari e singolari al tempo stesso, e quanto fosse importante il ruolo dell’altra che leggeva le stesse interviste e me le restituiva con quel di più che mi permetteva un’andata in profondità nella lettura. Divina appariva insomma come impresa culturale polifonica, a più voci, priva di derive omologatrici.

In merito alla questione cruciale di come emerge, nelle memorie individuali delle artiste, il profilo e il senso di un’impresa collettiva, in merito insomma all’ autorappresentazione del noi, vorrei restituire in chiusura alcune immagini dense, derivanti dalle fonti orali, che raccontano bene il valore aggiunto di Divina, non di semplice impresa, ma di organismo vivente. Per alcune, Divina è il modo in cui le donne abitavano la sala Anita, la saletta piccola del Teatro Garybaldi: qui negli anni di Divina alcune si misero a lavorare e non a caso qui nacque la rassegna intitolata Progetti propri, dedicata agli studi, ai lavori in corso. “Lì, nella famosa sala Anita, avevamo allestito la nostra casetta”, ricorda Roberta Biagiarelli, “era una casa che teneva dentro le scene e anche l’anima di molti spettacoli fatti dalle donne di Teatro Settimo. Lì il pubblico veniva accolto, ascoltava i racconti sudamericani delle Zie d’America e cenava nella stanza irrorata di spezie e d’incenso…”[26]. Anche Mariella Fabbris sceglie il luogo, per lei Divina era: “Vedere popolato il Teatro Garybaldi di donne, soprattutto la sala Anita, la sala sopra, la più piccola, che era quella dedicata alle sperimentazioni di donne…Anita era anche il tavolo imbandito con il buffet per tutti…”[27]. L’identificazione condensata di Divina con la sala Anita, registrata nelle fonti orali, mi ha suggerito la metafora (che è diventata parte della mia scrittura critica), di Divina come “stanza tutta per noi”; rimanda a una dimensione calda e accogliente, in contatto con il corpo, con il delicato momento del come un’attrice crea, come abita e sta in quel luogo preciso. La sala Anita rappresenta la libertà creativa sentita da alcune dentro a Divina, un luogo che risponde ai bisogni delle artiste di sperimentare e osare in una dimensione più intima, più protetta.

Nella memoria di un’altra protagonista, Laura Curino, Divina “non è semplicemente la cornice rispetto al quadro, ma è la galleria rispetto al quadro e conta, perché diventa un luogo d’accoglienza, di scambio”[28]. E’ una diversa metafora di luogo: non la sala prove dove il lavoro nasce, ma il modo di porgere il lavoro all’esterno, di farlo circolare e di costruire con esso relazioni e accostamenti significativi. Divina dunque modula e offre i modi, i tempi e i luoghi della ricezione artistica e costruisce senso intorno ad un insieme di opere collegandole a un comune ambito creativo, sotto il segno dell’arte femminile.

Queste immagini/metafore, molto precise, permettono di avere un accesso profondo al senso dell’esperienza artistica collettiva, mostrano come essa si sia condensata nelle memorie individuali.

Il ricordo essenzializza: ho usato queste e altre immagini-chiave come guida, per articolare cosa sia stata Divina, ed esse, accanto alla storia fattuale delle iniziative realizzate, hanno permesso di scrivere, spero, non una semplice cronistoria, ma un racconto critico e interpretativo di Divina.

[1] Questo articolo – che è già stato pubblicato su DWF n. 4 (76) ottobre – dicembre 2007 con il titolo Divina (Torino 1990-1998): recupero e rielaborazione di un’esperienza teatrale femminile – appare qui con alcuni approfondimenti rispetto al lavoro d’archivio e al percorso svolto per arrivare ai documenti.
[2] Carlotta Pedrazzoli, Divina (1990-1998), Storia e memoria di un’esperienza teatrale nel segno della soggettività femminile, Università di Bologna, Bologna, a. a. 2003-2004.
[3] Laura Curino definisce così la sua città nel libro scritto insieme a Roberto Tarasco e Gabriele Vacis, Passione, Novara, Interlinea Edizioni, 1998, pag.10.
[4] Dalla testimonianza di Mariella Fabbris pubblicata in Antonia Spaliviero (a cura di), Divina. Vicende di vita e di teatro, Torino, Tirrenia Stampatori, 1992, pag. 119.
[5] Valeria Gennero, “Bisbetiche domate: studi femministi e istituzioni”, in A.A.V.V., Divina. Arte femminile in scena, Torino, Tirrenia Stampatori, 1995, pag. 14.
[6] E’ una ipotesi che ho formulato a partire dalla relazione di Valeria Gennero, “Bisbetiche domate”, cit., pag. 11.
[7] Ida Domijanni, Pratiche e cattedre. Femminismi a confronto in un convegno internazionale a Glasgow, “Il Manifesto”, 17 luglio 1991.
[8] Lizbeth Goodman, ‘Divina’: a Report from Turin, “New Theatre Quarterly”, n.25, 1991. – Laura  Mariani, Parole di attrici. Riflessioni in margine al libro Divina, “Lapis”, n. 20,  1993. – Lea  Melandri, Il linguaggio della Dea. Come liberarsi di un mito, “Lapis”, n.26, 1995. – Laura  Mariani, “Nuovo teatro delle attrici italiane. Sguardi per una storia da scrivere”, in Alessandra Ghiglione e Pier Cesare Rivoltella (a cura di), Altrimenti il silenzio. Appunti sulla scena al femminile, Milano, Euresis Edizioni, 1998. – Edda Melon, “Divine” per passione. Attrici, registe, autrici e danzatrici tra narrazione e sperimentazione, “Legendaria”, n. 40/41, 2003.
[9] Gerardo Guccini, Teatri verso il terzo millennio: il problema della rimozione storiografica, “Culture Teatrali”, n.2/3, 2000.
[10] Si è rotta d’improvviso la fiducia interna a questa rete di relazioni e si è assistito a modalità di azione impreviste e imprevedibili, derivanti da comportamenti autoritari, dal fascino e dalla seduzione del potere che hanno portato a un tragico epilogo e al venir meno della possibilità stessa di proseguire l’esperienza.
[11] Griselda Pollock, “Modernità e spazi del femminile”, in Arte a Parte. Donne artiste fra margini e centro, a cura di M.A. Trasforini, Milano, Franco Angeli, 2000, pag. 21.
[12] Lucia Ferrante, Gianna Pomata, Maura Palazzi, Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazione nella storia delle donne, Torino, Rosenberg & Sellier, 1988.
[13] Così Laura Mariani la definisce in “Feminist Theory and Criticism”, voce di Encyclopedia of Italian Literary Studies, Gaetana Marrone editor, Routledge, New York and London, 2007, vol. 1, pp.705-711.
[14] Lucia Ferrante, Gianna Pomata, Maura Palazzi, Ragnatele di rapporti, cit.
[15] Laura Mariani, “Nuovo teatro delle attrici italiane”, cit., pag. 197.
[16] Gerardo Guccini, Teatro di narrazione, “Hystrio”, n. 1, 2005, pag. 3.
[17] Ivi, pag. 6.
[18] Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli Editore, 1997, pag. 73.
[19] Dalla cura come attenzione femminile limitata alle faccende domestiche, al lavoro di cura a cui viene dato valore simbolico, perché “dietro al lavoro di cura vi è una competenza femminile sul mondo”, e il lavoro di cura, “sapienza che nasce dall’esperienza”,  “si fa codice, si fa sintassi”: vd.  Annalisa Marinelli, Agire con cura, “Via Dogana”, n. 65, giugno 2003, pag. 5.
[20] Dalla mia intervista a Mariella Fabbris, 15 luglio 2004, riportata nella mia tesi di laurea, pag. 162.
[21] Dalla mia intervista a Edda Melon, 25 settembre 2004, riportata nella mia tesi di laurea, pag. 248.
[22] Tratto da Divina ’96 L’arte discreta della cura della cultura. Patrimonio femminile, capitale maschile?, comunicato stampa, fondo archivistico Divina, raccoglitore 1990-1996.
[23] Ivi.
[24] Laura Mariani, Teatro e storie di vita: incontri con attrici,  “Lapis”, n. 3, marzo 1989.
[25] Ibidem.
[26] Dalla mia intervista a Roberta Biagiarelli, 30 settembre 2004, trascritta nella mia tesi di laurea, pag. 273.
[27] Dalla mia intervista a Mariella Fabbris, 15 luglio 2004, trascritta nella mia tesi di laurea, pag. 172.
[28] Dalla mia intervista a Laura Curino, 15 luglio 2004, trascritta nella mia tesi di laurea, pag. 182.

Abstract:
“Divina”, impresa collettiva nata nel 1990 e attiva fino al 1998, ha progettato e organizzato convegni internazionali, rassegne di teatro, incontri e seminari. Per riscoprirne la biografia ho utilizzato da un lato la “storia”, dall’altro la “memoria”. Attraverso l’intreccio fra storia e memoria ho cercato di ricostruire non solo gli avvenimenti dell’esperienza “Divina” ma anche le impressioni, i sentimenti delle donne che l’hanno creata. E’ stato dunque necessario utilizzare due tipi di fonti: da un lato recuperare i materiali d’archivio, dall’altro lavorare sulle fonti orali, sulla memoria, attraverso le interviste alle protagoniste. Sono emerse così le peculiarità di quest’esperienza, di questa “stanza tutta per loro” in cui le teatranti si esercitarono nella simbolizzazione dell’esercizio autobiografico e della narra-zione di sé, e insieme alle studiose si applicarono all’indagine narrativa delle storie delle altre, secondo quella strategia di rimozione della memoria che appartiene agli women’s studies; con le imprenditrici culturali costruirono stimolanti ipotesi di percorso, travasando con disinvoltura sperimentale i nodi teorici della cura e della maternità simbolica, cari all’elaborazione femminista italiana degli anni Novanta, ai territori delle pratiche artistiche.

Carlotta Pedrazzoli. Si laurea al Dams di Bologna nel 2005 con una tesi dal titolo “Divina (1990-1998), Storia e memoria di un’esperienza teatrale nel segno della soggettività femminile”. Questo lavoro, che ha creato e intrecciato relazioni femminili con le teatranti e le studiose protagoniste dell’esperienza torinese da lei incontrate e intervistate, ha contribuito alla decisione di trasferirsi a Torino, dove vive e lavora da un anno e mezzo occupandosi, tra l’altro, di organizzazione teatrale all’interno dell’associazione culturale blucinQue.