Resistenza contadina. “Ma la fortuna dei poveri dura poco” (Carolina Bertinotti) – Giovanni A.Cerutti
Carolina Bertinotti era una contadina – anche se questa definizione rimanda più alla dimensione rurale in cui si è svolta la sua esistenza, perché nella sua vita non ha fatto solo la contadina – nata a Invorio, un paese dell’alto Vergante, nel 1883 e morta, sempre a Invorio, nel 1953. La sua, come molte altre, era una famiglia numerosa: era la settima di tredici fratelli. A sua volta avrà otto figli, due dei quali moriranno dopo pochi mesi di vita, come, purtroppo, era allora comune.
Quando uno dei suoi figli, Italo, decide di unirsi alla lotta partigiana, diventando in breve tempo un comandante piuttosto noto, e anche piuttosto discusso, Carolina e il marito vengono arrestati e messi in prigione per ben due volte dalle autorità saloine, senza essere accusati di nulla, ma solo per il fatto di essere genitori di un partigiano, con l’evidente proposito di tentare di ricattarlo e di farlo venire allo scoperto. La guerra scompaginerà completamente la vita della sua famiglia: un figlio resterà bloccato in Libia, un altro finirà in campo di concentramento catturato dai tedeschi, un terzo, renitente alla leva di Salò, deciderà di unirsi alla banda del fratello partigiano, non tanto per scelta, quanto per sfuggire alla cattura, mentre la sua unica figlia morirà a causa del tifo. Una vicenda con tratti in larga parte comuni a chi viveva nelle comunità rurali, che viene, dunque, profondamente segnata dalla guerra, che non solo le scardina la famiglia mandando i figli nelle direzioni più diverse, ma la proiettata suo malgrado, in seguito alla scelta di Italo, in una situazione che assolutamente non conosce, quando ormai ha sessant’anni.
Siamo in grado di ricostruire con precisione la storia di Carolina e della sua famiglia perché, in modo del tutto inopinato, se pensate che stiamo parlando di una donna nata nel 1883 e cresciuta in un contesto rurale, la stessa Carolina ha lasciato una testimonianza scritta. Ad un certo punto della sua vita ha preso uno di quei quaderni con la copertina nera, che molti di voi ricorderanno, e ha scritto di getto raccontando tutta quello che le era capitato. Il diario – l’abbiamo chiamato diario per questioni editoriali, ma in realtà si tratta di una memoria – venne ritrovato solo dopo la sua morte. Non ne aveva fatto parola con nessuno, anche se non si può escludere che ne abbia parlato con qualcuno che non siamo più riusciti a raggiungere, ma in tal caso, però, è molto probabile che ne sarebbe rimasta traccia nella memoria famigliare. Il quaderno è stato ritrovato in fondo a un cassetto da una delle nuore di Carolina, mentre procedeva a disfare la stanza, secondo un rituale piuttosto diffuso, subito dopo la sua morte. Maria Teresa, questo il nome della nuora, ne intuì subito il valore e lo fece vedere al marito e agli altri figli di Carolina, che invece non gli diedero molto peso. Ma, per nostra fortuna, decise di conservarlo. A metà degli anni settanta i figli di Maria Teresa, quindi i nipoti di Carolina, ne fecero un’edizione dattiloscritta di una ventina di copie che girò tra parenti e amici ed è grazie a questa edizione che alla fine degli anni novanta arrivò – in un modo decisamente casuale, avevo semplicemente stretto amicizia con Marzio, uno dei figli di Maria Teresa – al nostro Istituto. Alla prima lettura mi sono subito entusiasmato, ma stiamo parlando di quasi dieci anni fa e non mi sentivo ancora sicuro del grado di attendibilità dei miei giudizi. Così l’ho fatto subito leggere al direttore dell’Istituto, Mauro Begozzi, che ha compreso l’eccezionalità di questo documento e ha deciso di affidarmene la cura.
Il diario è stato pubblicato così com’era, senza fare interventi per sistemarlo se non quelli indispensabili per rendere possibile una lettura corrente, di cui, peraltro, viene dato puntuale riscontro nella nota al testo. Sono, quindi, rimaste tutte le sgrammaticature, le doppie che mancano, le virgole sbagliate… che restituiscono tutta la freschezza di questo racconto. Reca una data – Invorio, 14 luglio 1945 – ed è stato scritto con la stessa penna, quindi probabilmente senza soluzione di continuità. Questa, almeno, è l’ipotesi che faccio e che cerco di argomentare nell’introduzione.
Carolina si affida alla scrittura per fermare gli avvenimenti della propria vita, per rimettere ordine in una vicenda diventata così tumultuosa, un po’ come si fa oggi in alcune terapie che incoraggiano la pratica della scrittura autobiografica per ricomporre percorsi di vita lacerati. Ma nel rimettere ordine negli eventi che si è lasciata alle spalle, non ripercorre soltanto tutte le vicissitudini che ha attraversato dopo lo scoppio della guerra, ma racconta tutta la sua vita, dai primi anni fino a quando tutti i suoi figli riescono a tornare a casa quando la guerra finisce. Delle cinquantotto facciate del quaderno, circa un terzo riguardano la sua infanzia, mentre i rimanenti due terzi le vicende della guerra. La cosa straordinaria, a mio parere, del racconto di questa infanzia è che ci restituisce uno spaccato davvero eccezionale di quella che era la vita della gente nelle nostre comunità rurali alla fine dell’Ottocento, senza che la Carolina adulta sovrapponga il suo sguardo o le sue considerazioni. Se ci pensate bene, infatti, oggi chiunque di noi si dovesse mettere a scrivere della sua infanzia ha già alle spalle delle rappresentazioni mediate da codici culturali, attraverso la lettura di libri, la visione di film o l’ascolto di racconti, che lo portano senza accorgersi a uniformarsi a un’idea di scrittura in cui il punto di vista dominante è quello dell’adulto che ripensa alla sua infanzia. Nel racconto di Carolina, invece, si sente ancora la bambina che parla senza alcuna mediazione.
Vi leggo l’incipit del diario, per darvi l’idea della qualità di questo documento:
“Sono nata Invorio provincia di Novara in una cascina detta Baragia, figlia di poveri ma onesti contadini.
Ho vissuto colà fino ai 3 anni, che ricordo ancora qualche particolare. Ricordo…”
Riannodando i fili della sua vita, Carolina ci introduce all’interno di una serie di fenomeni sociali che hanno caratterizzato l’Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Carolina riesce a frequentare la scuola solo fino alla terza elementare, perché allora i comuni avevano l’obbligo di provvedere all’istruzione scolastica solo fino alla terza elementare. A dieci anni finisce in fabbrica: si sveglia il lunedì mattina alle quattro, fa sette, otto chilometri a piedi, resta là tutta la settimana dormendo accanto alla macchina sulla quale lavora e al sabato sera ritorna a casa di nuovo a piedi con le sue compagne. L’ingresso in fabbrica è traumatico, ma a un certo punto si percepisce dal racconto che attraverso il lavoro incomincia ad avere coscienza di sé e della propria autonomia. È molto orgogliosa quando porta a casa la prima paga e la consegna alla mamma. E quando il padre la obbliga a stare a casa perché ha bisogno di lei per lavorare la campagna è quasi dispiaciuta perché in qualche modo si stava costruendo una sua personalità. Davvero significativo il commento di Carolina:
“Pazienza, non c’è da discutere, bisogna ubidir i Genitori”
E notate quel genitori scritto con la g maiuscola.
È, dunque, un documento che può essere letto a due livelli. Da una parte ci restituisce la testimonianza di una vicenda personale che ha un valore in sé. Già solo il fatto che una donna nata nel 1883, che ha fatto solo la terza elementare, pensi di prendere un quaderno e una penna e di mettersi a raccontare vi dà la misura di una personalità fuori dal comune, indipendentemente dai fatti che racconta. Dall’altra ci restituisce un punto di vista insolito non solo della guerra partigiana, ma anche della vita e dello sviluppo delle nostre comunità rurali, che consente di gettare una luce inedita su aspetti decisivi della nostra storia. Non si tratta, infatti, di zone periferiche, ma del cuore profondo del nostro paese, tenendo conto di un fatto che normalmente si dimentica: ancora oggi in Italia i tre quarti circa degli ottomila comuni esistenti ha meno di cinquemila abitanti.
La guerra partigiana, in particolare, è descritta con notevole precisione e con grande ricchezza di particolari. Si tratta di un aspetto decisamente rilevante. Normalmente, infatti, chi scrive sulla resistenza partendo dall’esperienza personale si sente depositario dell’intera memoria resistenziale e incomincia a scrivere non solo di quello che ha vissuto e che ha visto, ma anche di quello che ha ascoltato da altri testimoni o, peggio, che ha orecchiato in modo vago, aggiungendo, sovente, giudizi e interpretazioni ben poco documentati. E qui, la maggior parte delle memorie partigiane frana. Carolina, invece, scrive solo e soltanto quello che ha visto. L’assoluto rilievo del racconto di Carolina come fonte storiografica è che di ogni fatto e di ogni circostanza narrata sono stato in grado di trovare un documento di riscontro in archivi pubblici o privati. Nelle note ho potuto dare forma, così, a una specie di sottotesto, in cui ho ricostruito parti rilevanti delle vicende della resistenza locale che erano rimaste nell’ombra, proprio per mancanza di fonti, e che sembrano indicare percorsi di ricerca promettenti per costruire un quadro interpretativo della storia della resistenza nel Vergante e nelle zone limitrofe, ma anche della storia della resistenza nel novarese nel suo complesso.
La lettura del racconto di Carolina consente di portare alla luce alcune dimensioni che le ricostruzioni politiche della storia della Resistenza – che hanno letto la Resistenza soprattutto dal punto di vista del CLN, del progetto, cioè, di ricostruzione nazionale – ha trascurato, dimensioni che hanno caratterizzato la maggior parte dei contesti rurali e che non sono rilevanti solo per la storia delle singole comunità, ma permettono di muoversi verso una lettura complessiva del fenomeno resistenziale. Soprattutto emerge in modo non ideologico, come invece è generalmente posta, la dimensione della guerra civile. In due sensi. Il primo discende dal fatto che difficilmente le truppe di occupazione tedesche si insediavano fuori dalle città, per cui nei paesi restavano ad affrontarsi direttamente le milizie fasciste, generalmente formate da uomini estranei al territorio, e le formazioni partigiane, innescando dinamiche non sempre riconducibili alla pura logica militare. A Invorio, ad esempio, lo scontro diventa feroce e, purtroppo, anche tragico perché, in una delle prime operazioni che conduce, il figlio di Carolina porta a termine il furto di quaranta cappotti che il comandante delle camicie nere aveva commissionato a una sarta del paese, lasciando un biglietto beffardo. La lotta si inasprisce, quindi, a seguito di un’impresa dai tratti quasi goliardici, ma che acquista un valore simbolico esasperato dalla competizione interna all’appartenenza alla stessa comunità nazionale. Il secondo è determinato dall’irrompere della grande storia in comunità rurali che per secoli avevano ripetuto gli stessi rituali e che erano state toccate ancora marginalmente dai processi di modernizzazione. La guerra impone un’accelerazione violentissima, che sollecita al massimo grado le strutture profonde delle comunità rurali, portando allo scoperto gli odi, le tensioni e le contraddizioni latenti. Il segnale più evidente di questo processo è il fenomeno delle spie. La vita di Carolina e di suo figlio sarà segnata da gente che segue i loro movimenti e li riferisce alle autorità saloine. Ogni volta che passano da casa, vengono raggiunti da milizie armate che bussano alla porta: è evidente che qualcuno del paese si è preso la briga di andarle ad avvisare.
Possiamo dire che quello che ci viene restituito è uno sguardo rasoterra della guerra partigiana. Siamo di fronte a una donna che non aveva altra intenzione se non di ripercorrere quello che le era accaduto. Una donna che arrivata a sessant’anni scrive con un candore straordinario, senza sovrapposizioni ideologiche, permettendoci, così, di vedere dimensioni fondamentali della guerra partigiana. Si tratta, a mio parere, di uno dei pregi più rilevanti del diario, che ci fornisce gli strumenti per penetrare uno dei nuclei tematici incompresi su cui si è poi svolto il dibattito sulla Resistenza.
Nelle comunità rurali la dicotomia che prende forma, e quindi anche il contenuto delle critiche alla Resistenza, non è basata, come generalmente viene inteso nel dibattito pubblico, su questioni ideologiche o su progetti politici contrastanti. Chiunque ha fatto delle ricerche nelle realtà rurali si è trovato di fronte un vasto e diffuso malcontento che ha alimentato una memoria anti-partigiana, che non è, però, riconducibile alle grandi fratture ideologiche, nemmeno alla memoria del fascismo, ma – lo si vede in questo diario, dall’aggressione che Carolina e la sua famiglia hanno dovuto subire – da un confronto che si apre nelle comunità sull’utilità di affrontare i sacrifici che la scelta di resistere comporta. Se da una parte, cioè, c’è chi comprende che non è possibile resistere all’occupazione senza esporsi, senza che questa resistenza scateni delle reazioni che mettono a repentaglio la vita della comunità, dall’altra, invece, c’è chi imputa ai partigiani di coinvolgere la comunità nelle vicende più aspre della guerra, quando i motivi della lotta sono fondamentalmente estranei ai suoi interessi autentici.
Da una parte, quindi, secondo categorie interpretative sofisticate come il progetto di riscossa nazionale, che per lo più viene solo intuito, c’è la consapevolezza che la decisione di resistere ha come naturale conseguenza la necessità di sopportare disagi e sofferenze, dall’altra parte ci sono comportamenti che possono essere fatti risalire al concetto di familismo amorale elaborato dal sociologo americano Edward Banfield. Dalla vicenda di questa famiglia che ha accettato di giocarsi, emerge come il vero scontro è avvenuto non tanto contro l’ipotesi di un progetto alternativo di Italia, ma contro l’atteggiamento diffuso del “lasciateci tranquilli”. E nel dopoguerra la vera memoria anti-partigiana si è costruita non tanto su obiezioni di tipo politico, ma su quel “lasciateci tranquilli che tanto la guerra finiva in quel modo lo stesso”. E se ci fate caso, anche dietro le prese di posizioni revisioniste più sottili, sotto sotto, non c’è tanto la rivalutazione del fascismo, quanto l’affermazione dell’inutilità di qualsiasi iniziativa, perché la storia era già segnata e chi ha cercato di opporsi attivamente all’occupazione ha avuto come unico risultato quello di creare lutti e problemi alle comunità.
E, invece, la storia di Carolina, una donna semplice che si rimette in gioco a sessant’anni, ci restituisce il valore di quella scelta, indicando che l’unico modo per iniziare a riconquistare un poco della dignità perduta in vent’anni di vaniloquio era quello di provare a fare finalmente qualcosa, anche se quel qualcosa ha richiesto di pagare dei prezzi altissimi.
Carolina Bertinotti – Ma la fortuna dei poveri dura poco. Storia della mia vita (Diario 1883-1945) – a cura di Giovanni A. Cerutti. – Interlinea, Novara 2005